L’essere umano è fatto per soffrire. E si compiace e gode della propria sofferenza. Riesce a trasformarla in una occasione di festa, per questo è ammirevole ma assai difficile da comprendere.

Questa sua attitudine si manifesta appieno nelle sagre, o fiere, o feste pubbliche. Manifestazioni consacrate al’ammucchiata dedita allo svago gastronomico o merceologico.

L’intero avvenimento si configura dall’inizio alla fine come un girone infernale, ripetitivo, sempre uguale a se stesso, un’unione mistica in cui annullarsi, condividendo un disagio collettivo, che credere sollazzo rientra nella costituzione della pena.

L’impatto è devastante, ma affrontato con gioia per la promessa di gratificazioni future. Il parcheggio, cioè, è il primo grande scoglio che dovrebbe far desistere le persone assennate e confermarle nell’idea che tornare alla solitudine domestica sarebbe la scelta migliore. Colonne di vetture che procedono a passo d’uomo, clacson e offese, un frastuono appunto infernale, manovre azzardate, improbabili incroci che mettono a rischio carrozzerie e specchietti. Rabbia, adrenalina, prepotenza e menefreghismo portano a posizionare le macchine in modo creativo ed arrogante nei posti più improbabili, con la speranza che non ci siano conseguenze, alimentata dal clima di sospensione della realtà.

L’ingresso nell’arena (parco, piazza, strada di paesello che sia) cancella le promesse e mostra in modo crudo la dura realtà: non ne vale decisamente la pena. Ma le persone sembrano felici, c’è allegria, è palpabile lo sforzo di fare festa e di estraniarsi dalla quotidianità. Le bancarelle sono in circolo, le file sono ordinate, i tavoli sono già tutti pieni, l’odore dei cibi offerti si mischia a dovere. Ma bisogna pur far passare la giornata, o serata.

Il primo passo è mangiare. In un mondo ideale, quello dei sogni e delle speranze riguardo al futuro, dei vagheggiamenti romantici che si fanno mentre ci si dirige al luogo di festa, in quel mondo appunto ci si siede con gli amici in un tavolo isolato, si ordina dopo una breve attesa, si pasteggia con pietanze sì grezze, ma caratterizzate dai gusti rozzi e sani che si sono perduti. Purtroppo le tavolate sono enormi, promiscue, e non è facile decidere se l’impossibilità di sedersi per il tutto esaurito sia una fortuna o meno. Nemmeno mangiare in piedi è fattibile, la fila al banco delle ordinazioni è degna di un grande concerto, e la logica suggerisce che sia impossibile da smaltire completamente entro la durata della festa.

Come ripiegare? Street Food. Ci sono numerose alternative, tutte deludenti rispetto alle aspettative iniziali. Sorpresa, la fila per prendere una piadina, un panino, una pannocchia, è la stessa del ristorante. Ti rendi conto che c’è qualcosa di magico quando decidi di aspettare per ore un qualcosa che potresti prepararti in casa, meglio, in due minuti, e che per ottenerlo dovrai pagare una cifra spropositata. Il torpedone si trasforma in occasione di socializzazione e di divertimento, che altro non è che condivisione della sofferenza.Ti chiedevi come avresti fatto trascorrere alcune ore in un posto di pochi metri quadri, ora lo sai, ma non avresti mai immaginato che sarebbe stato come in posta.

Finita la prima quest, la prossima tappa è prendere da bere. Per fortuna la copiosa presenza di stand garantisce un rapido approvvigionamento ed una discreta varietà. Non tutto può essere bello: i prezzi sono proibitivi, per raggiungere un livello di mancata sobrietà che permetta di reggere questo degrado servono tasche gonfie, e questo aumenta la depressione nata dal trovarsi in quel luogo, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Che fare ora? Il giro per le bancarelle ! Una sfilata sfocata di oggetti inutili, improbabili, scadenti, privi di interesse. Che però per far passare il tempo diventano attraenti, motivo di dibattito, e incredibilmente di acquisto. Ci devono essere regole di marketing psicologico esoteriche e difficili da comprendere ai non iniziati. È in questa occasione che si esplicita a pieno il parallelo con i gironi infernali. Le bancarelle sono a cerchio, e si è costretti a percorrere questo cerchio più e più volte. La massa si divide in due gruppi, uno gira in direzione opposta all’altro. Ad ogni giro i due gruppi si ingrossano aumentando i membri tra le proprie fila. Si arriva alla calca: per procedere devi sbattere contro altre persone, strofinarti, abbracciarti, sentirne il sapore e l’odore, raggiungere con loro livelli di intimità che pensavi preclusi dal comune senso del pudore. Senza accorgertene arrivi al punto di essere trascinato dalla folla senza sapere la direzione, abbandonato a te stesso ed alla volontà generale, privo della speranza di poterne uscire mai, rassegnato alla vita che ti è stata data.

Ma la massa acefala ha in realtà un obiettivo, e ti trovi trasportato in un luogo al di fuori del Circuito. Siamo tutti radunati nello spiazzo dove si svolge la rappresentazione che dà significato all’avvenimento. Impossibile vederla, troppo lontani e coperti da sagome; impossibile allontanarsi, troppo in mezzo alla materia umana per riuscire ad uscire. Bisogna subire l’entusiasmo passivo per il rito che si svolge uguale tutti gli anni, si pazienta, si spera che sia l’ultima espiazione.

E lo è. Incolonnati si fa ritorno alla macchina, incolonnati si esce dal parcheggio, incolonnati si percorre la strada. Ma questa volta è diverso, ci si sta liberando dalla cappa di stregoneria che aleggiava sulla festa, si riprende contatto con la realtà svegliandosi gradualmente dall’incubo; si ha la consapevolezza che quest’ultima coda potrà portarti a rivedere la luce. Finalmente è finita.

Arrivederci all’anno prossimo.