Sono forti, sono cattivi, sono determinati, sono pronti a tutto.

Così si definiscono i 30 rappresentanti di governi ed istituzioni internazionali riuniti ieri a Parigi. Il loro obiettivo è sconfiggere l’IS unendo tutte le loro abilità. Per rendere il cast più vendibile in tutti i mercati del mondo ed attirare più pubblico sono state coinvolte anche le personalità del mondo arabo; i musulmani buoni contro quelli cattivi.

Purtroppo non scenderanno in campo direttamente loro, vestiti da guerrieri, armati fino ai denti, eroici nello sconfiggere i nemici tra esplosioni spettacolari, belle donne, e scene di lotta in slow motion. Il loro compito sarà mettere a disposizione di un’azione coordinata armi, veicoli, soldi, aiuti umanitari.

Dopo l’entusiasmo dell’annuncio e del tutti per uno e uno per tutti, comincia la ritirata;  l’appoggio è sincero ma i distinguo fioccano. Chi fornisce solo 6 bombardieri, chi arma i peshmerga, chi aiuta la popolazione civile perché ripudia la guerra, chi dà pieno sostegno a parole ma quel giorno ha un impegno e proprio non può andare. In genere nessuno vuole mettere piede sul terreno, ma bombardare a distanza, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

A fare il lavoro sporco sono chiamati appunto gli arabi. Tocca a loro mettere in piedi un esercito di terra che combatta i ribelli dell’IS e impedisca loro l’avanzata in Iraq ed in Siria. C’è un problema: gli stati arabi appartengono tutti a correnti religiose ed etnie diverse, ognuno ha i propri interessi e le proprie alleanze, che gli occidentali faticano a capire, ed è difficilissimo che riescano ad accordarsi e coordinarsi tra loro, soprattutto in tempi brevi. E un’ ulteriore difficoltà: tra questi stati arabi alcuni sono stati (e forse sono ancora) finanziatori diretti dell’IS, usata come arma di ricatto o per infastidire gli stati rivali nello scacchiere dell’area mediorientale e della penisola arabica.

Tra l’inettitudine europea, la scarsa voglia di Obama e dell’Occidente di impelagarsi in una nuova guerra dopo aver ritirato le truppe da Iraq ed Afghanistan e le rivalità interne al mondo arabo, la decisione per un’azione collettiva è lontana, e la risoluzione del problema IS ancora di più.

Rimane il pathos straordinario creato da questi superuomini con il loro grintoso annuncio, Abu Bakr Al-Baghdadi sarà terrorizzato.

Obama ha definito l’impegno contro lo Stato Islamico una battaglia contro “questa ideologia nichilista”. Credo che la questione sia da ribaltare.

In questo momento l’ISIS attira, preoccupa e fa parlare di sé perché è una risposta di senso. Ha un’organizzazione, ha dei valori, fornisce un’ideologia e le relative certezze, è radicale, è violenta e per questo affascinante.

Con il Novecento sono morte le ideologie; ma non è morto il bisogno di un orizzonte di senso, di un sistema di regole e ideali che fornisca una direzione ritenuta giusta e coerente che possa fungere da guida nella formazione dell’individuo.

In Occidente cosa è rimasto per soddisfare questa esigenza? Un surrogato omeopatico composto da: fatti un bel curriculum, cerca un lavoro prestigioso, in ogni caso fai in modo di avere tanti soldi, appari bello e di successo. Dal 2008, con l’inizio della crisi economica, anche questi residui valori sono evaporati; l’unico scenario per chi si affaccia alla scena del mondo è una sopravvivenza priva di gratificazioni, con nessuna prospettiva futura per cui valga la pena sacrificarsi.

Certo la ribellione c’è: Occupy Wall Street e i movimenti europei analoghi che protestano contro l’1% più ricco. Ma sono fuochi di paglia, fanno molto rumore per poi spegnersi dopo poco in un nulla di fatto. Ricordano in questo i movimenti del ’68, e credo che il fallimento sia dovuto alle stesse ragioni: non sono strutturati, criticano l’esistente ma non propongono un modello alternativo; insomma non hanno un’idea forte alle spalle che consenta di passare dalla fase destruens a quella construens.

L’ISIS offre tutto ciò che serve a chi rifiuta il modello unico ora dominante: ci sono le certezze di un’ideologia forte, strutturata, elaborata, che fornisce sicurezza, ideali, ed un modello di mondo futuro, contrapposto all’attuale, tale da giustificare gli sforzi e le rinunce del presente. Ha un’organizzazione, aderendovi si può percepire il senso di appartenenza e di identificazione che manca nella società liquida e parcellizzata del nuovo millennio. La violenza e la radicalità delle sue azioni esemplificano il modello noi vs loro tipico delle culture di ribellione giovanile: è efferata, ci sono sangue, morti e stupri, insomma un’eccezionalità che infrange la routine ed il buonismo quotidiani.

La sua immagine è potente: i membri sono vestiti di nero, hanno sempre le armi in mano, sanno rappresentarsi in immagini di forza e vittoriose; è moderna: c’è un ampio e sapiente uso delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione social, come dimostra il loro ultimo ricatto al presidente degli Stati Uniti (che ricorda quello posto al primo ministro britannico nella serie TV Black Mirror: accoppiarsi con una scrofa per non far uccidere la principessa rapita).

Per riprendere il paragone con Il Novecento e le sue ideologie L’ISIS fornisce ai giovani di oggi l’occasione per soddisfare l’esigenza del gesto eroico, del rito di passaggio della guerra che rende definitivamente uomini: un’esigenza che aveva fatto accogliere entusiasticamente il conflitto bellico con un’esplosione di volontarismo in entrambi le guerre mondiali. La Siria/Iraq di questi giorni è una sorta di Spagna del ’36, una guerra civile che si trasforma in conflitto globale ed in scontro tra due diverse ideologie.

Con questa chiave interpretativa la risposta armata è utile solo nell’immediato, cura infatti i sintomi ma non la malattia. La risposta più efficace sarebbe un’elaborazione solida e coerente di nuove dottrine politiche e nuovi modelli di sviluppo socio/economici, che non lascino spazio all’integralismo ed al ritorno di ideologie totalizzanti, infilatisi nelle crepe e nei vuoti del panorama culturale contemporaneo.